Differentemente da quanto accade in diversi paesi stranieri, in Italia l’esercizio dell’attività investigativa è soggetto a diverse limitazioni e vincoli legislativi, primo tra tutti il regolare possesso della licenza prefettizia ex art. 134 TULPS. Si tratta, invero, di requisiti fondamentali per chi compie investigazioni, così come per il Committente delle attività, che deve sempre accertarne la sussistenza.
In un settore alimentato dalla ricerca e raccolta di informazioni confidenziali anche a fini probatori, in cui non mancano i casi di operatori sprovvisti di licenza, certificare l’affidabilità professionale del proprio interlocutore appare di fondamentale importanza, anche in ottica di bilanciamento tra protezione dei dati sensibili e le necessità d’indagine.
In merito a tale tematica, una linea guida importante è tracciata dal Codice di Deontologia e Buona Condotta per i trattamenti dei dati personali effettuati per svolgere investigazioni difensive, abbracciata in linea generale da tutti i professionisti delle investigazioni. In quanto persona che svolge indagini finalizzate all’accertamento o all’esclusione dell’accadimento di determinati fatti e avvenimenti, e affinché le indagini abbiano valore probatorio, l’investigatore è obbligato a seguire anche regole e normative ben precise in materia di privacy.
Al Capo IV del suddetto Codice sono stabilite, ad esempio, le modalità di trattamento dei dati, le principali regole di comportamento, nonché le disposizioni in merito alla conservazione e cancellazione degli stessi.
Secondo l’Art. 2 comma 1 l’investigatore “organizza il trattamento dei dati personali secondo le modalità che risultino più adeguate a favorire in concreto l’effettivo rispetto dei diritti, delle libertà e della dignità degli interessati, applicando i princìpi di finalità, necessità, proporzionalità e non eccedenza”. L’attività risulta lecita solo in presenza di un “apposito incarico conferito per iscritto” con finalità predefinite, specificando “il diritto che si intende esercitare in sede giudiziaria” e chiarendo dunque quale tipologia di procedimento si collega all’attività d’indagine e quali sono gli elementi che giustificano tale azione, in mancanza dei quali si configurerebbe una violazione della privacy dell’indagato.
Per garantire la riservatezza delle informazioni acquisite in fase di indagine (dalle generalità dell’indagato agli elementi probatori ottenuti, ad esempio, mediante osservazione dinamica), il titolare di licenza è tenuto al rispetto dell’art. 11, comma 1, lett. e) del Codice, ossia a conservare i dati acquisiti per un periodo non superiore a quello utile per svolgere l’incarico. Sebbene il Codice non fissi con precisione tempi, modi e scopi del trattamento, è categorico nell’imporre la loro cancellazione a conclusione dell’attività investigativa. E ciò vale anche e nonostante la sussistenza di un procedimento giudiziario di natura civile o penale che possa essere scaturito proprio dalle evidenze collezionate in fase di indagine.
Differentemente, il mandato di conferimento incarico non solo può e deve essere mantenuto anche a distanza di anni, ma dimostra anzi di per sé la liceità e la correttezza dell’operatore investigativo rispetto al trattamento dei propri incarichi.
Il rispetto del Codice costituisce condizione essenziale per la legittimità e correttezza del trattamento dei dati e, più in generale, per l’utilizzabilità delle risultanze prodotte. Avere garanzie circa questi aspetti formali, oltre in merito alla sostanza delle evidenze, deve rappresentare dunque per ogni Committente un importante punto di attenzione nella selezione dei propri partner.